IL GURU DEL TEMPO

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Inizia con Alfredo Paramico, il nostro viaggio insieme a Bonanno Watches, per incontrare i personaggi più interessanti del mondo del Vintage .

Alfredo Paramico assieme a Giovanni Bonanno e Giovanni Bonanno, nell’atelier di Via della Croce.

NATO E LAUREATO A NAPOLI ha iniziato il suo percorso professionale nel settore finanziario, ma ben presto ha deciso di seguire la sua passione per gli orologi. All’età di 23 anni, ha lasciato la sua città natale per perseguire un Master in statistica quantitativa presso l’Università Bocconi. Successivamente, nel 1994, ha fatto il grande passo di trasferirsi a Londra, dove ha iniziato la sua carriera presso Bankers Trust, una delle principali banche d’investimento specializzata nel mercato dei derivati.
La sua competenza nel campo dei derivati, sia nel settore dei titoli azionari che in quello dei titoli di stato, lo ha portato a ricoprire posizioni sempre più prestigiose in diverse istituzioni finanziarie. Ha lavorato per Donaldson, Lufkin and Jenrette (poi acquisita da Credit Suisse), Caboto (parte del gruppo Intesa), Dresdner Bank e infine BBVA, dove ha trascorso due anni a capo delle attività di Capital Markets per l’Italia presso la sede milanese.
La passione per gli orologi è una costante nella sua vita sin dall’adolescenza.
Fin da giovane, ha iniziato a collezionare orologi, cercando con pazienza pezzi unici nei mercati delle pulci, adattandosi alle sue risorse limitate. Nel corso degli anni, la sua collezione si è arricchita con alcuni dei più prestigiosi orologi della storia dell’orologeria, con un’attenzione particolare per i Patek Philippe prodotti tra gli anni ‘30 e gli anni ‘50, caratterizzati da cassi di colore “bianco”, realizzati in acciaio, oro bianco e platino. Tra i suoi pezzi più noti spicca il celebre e raro Patek Philippe 1518 in acciaio. Dopo aver concluso la sua carriera nel settore finanziario, ha deciso di dedicarsi completamente alla sua passione per gli orologi. Ha fondato il primo fondo di investimento interamente dedicato agli orologi da collezione, ottenendo l’approvazione dai regolatori lussemburghesi. Nel 2013, si è trasferito a Miami, dove si dedica a tempo pieno alla ricerca degli orologi più pregiati e importanti per i suoi clienti più esigenti. Opera come consulente e rivenditore attraverso la sua azienda Alfredo Paramico LLC. La sua vasta conoscenza ed esperienza lo hanno portato a servire una clientela internazionale proveniente da ogni angolo del mondo.

Napoli, Milano o Miami?
«Sembrerà paradossale come risposta, perché usualmente le persone nate a Napoli ha un bisogno anche fisico del mare. Da questo punto di vista anche Miami è una città marina. Invece la mia scelta è Milano, la città ideale per il mio lavoro e il mio modo di vivere.»
Ti senti di essere un collezionista oppure un commerciante?
«Sono un commerciante anche se per tanti anni ho fatto il collezionista. Guardandomi indietro, essere stato un “grande collezionista”, almeno così mi hanno definito, è stato di estrema importanza per la mia visione del mondo delle lancette.» 

Nella tua storia c'è anche uno dei primi fondi d'investimento legati all' Alta Orologerie...«È stata un’esperienza stupenda. È stato il primo fondo che investiva in orologi d’epoca importanti ad essere stato autorizzato dalla Commission de Surveillance du Secteur Financier in Lussemburgo, in sostanza la nostra Consob. Sono entrato in contatto con delle realtà importanti della finanza, che già conoscevo e che, assieme al mio background nel mondo delle lancette, hanno fatto sì che fossi scelto per il ruolo di guida del fondo. È stata una stupenda avventura. Una cavalcata con alcune importanti complicazioni, che a dire il vero, riguardano genericamente l’instituire un fondo che investa in beni tangibili.»

Un esempio?
«Non puoi chiedere il riscatto della quota ogni mese, perché mese dopo mese il valore dell’orologio non può cambiare.»
Rifaresti un fondo d’investimento legato all’orologeria?
«Sì, ma con un layout completamente diverso. Il mio sogno sarebbe quello di avere venti persone, selezionate in tutto il mondo, che ti danno una quota di due o tre milioni che non possono essere riscattati prima di cinque anni. Farei con loro tre cene, una in Europa, una in Asia e una in America, per raccontare loro il lavoro fatto, quello da fare, la situazione del mercato e come ci stiamo muovendo. Sono certo che, passati i cinque anni, sarebbero tutti stracontenti del risultato ottenuto.»
Cosa ne pensi di quelli esistenti?
«Sinceramente non ne conosco nessuno regolamentato, quindi non so le loro dinamiche, politiche, le condizioni di rimborso… quindi, non mi posso esprimere.»
Torniamo a te: ti piace essere visto e considerato come un commerciante?
«Sicuramente sì. Oggi, però, il commerciante ha anche una figura di “padrino” del collezionista, è colui il quale lo guida nelle scelte. Aver collezionato e sapere le logiche che regolano questa passione, saper individuare le tendenze ed avere la capacità di riconoscere le caratteristiche di un orologio, sono peculiarità che mi aiutano nel rapporto con il cliente.»
Il commerciante è una figura di riferimento per il collezionista?
«Sì, specie quando parliamo di vintage che, lo dico da sempre, non è per tutti. Devi avere passione, cultura, apertura mentale indispensabile per instaurare un rapporto di fiducia con il commerciante di riferimento.»
Prima abbiamo parlato di Napoli, Miami, Milano… ma la “capitale dell’orologeria” Ginevra non la vogliamo considerare?
«Alcuni dei miei più bei ricordi da collezionista, sono legati a quella città. Lì ho  acquistato il 1518 in acciaio… ricordo che dopo quell’operazione, camminavo da solo sul lungolago congratulandomi e gioendo per quell’operazione. Ginevra è dove arrivi e “annusi” gli orologi, dove è giusto incontrarsi tutti assieme due o tre volte all’anno per le aste, il salone…»
In quale anno hai iniziato a collezionare?
«Ho iniziato in contemporanea con l’uscita delle prime riviste italiane, Orologi e non solo, Polso, quindi alla fine degli anni ’80. Ricordo che in quel momento potevo imparare qualcosa solo leggendo e i magazine uscivano una volta al mese: in quaranta minuti divoravo tutti gli articoli che mi interessavano, poi passavo i rimanenti 29 giorni, 23 ore e 20 minuti ad aspettare il nuovo numero. In quell’epoca c’era una fame di conoscenza che oggi è un po’ sparita.»
Accendiamo un ricordo: i tuoi 5 orologi preferiti all’inizio degli anni ’90?
«Vi farò ridere: ricordo che andai nel negozio di Lorenzi a via del Bollo, per chiedergli un Gerald Genta. Lui mi guardò e disse: “ma lo sa che per acquistarlo ci vogliono 80 milioni di lire?” Lo guardai sbigottito e me ne andai. Comunque questo era un dei miei preferiti anche se il mio primo orologio d’epoca è stato un Tri-Compax in oro bellissimo acquistato da Luca Musumeci a Milano. Poi ricordo di aver cambiato un Freccione con un Ebel Voyager in acciaio e oro: quando lo indossai ero felice come una Pasqua… mi sembra che anche il commerciante lo fosse. Mi piacevano molto alcuni Rolex e avevo una predilezione per le riserve di carica. Andai al mercatino che si teneva in Villa Comunale a Napoli e scambiai uno Scuba Diver, che all’epoca era come oro, con un Roamer riserva di carica laminato.Forse allora, viste le scelte, non si vedeva bene la mia indole da commerciante.»
Ce l’hai ancora?
«Magari, spero di averla e anzi di essermi migliorato.

No, non sto parlando dell’indole da commerciante! Quella nessuno la mette in dubbio: il Roamer ce l’hai ancora?
«No, il Romaer non più. Ho però ancora in collezione un Ebel, non il Voyager ma comunque un bel pezzo di questa marca.»

Uno degli orologi più rari e importanti del collezionismo vintage, il Patek Philippe ref. 2497 del 1954 con cassa in platino e numeri Breguet in smalto.

 

Continuiamo su questa strada: quali sono i tuoi 5 orologi preferiti oggi?
«Domanda insidiosa e complicata. Partiamo da un assunto: per il mio lavoro ho avuto la fortuna di avere tra le mani alcuni dei segnatempo più belli mai prodotti, questi i miei preferiti. Il 2497 platino con i numeri Breguet di smalto mi faceva tremare i polsi. Un altro pezzo stupendo è il 4113 rattrapante Rolex. Poi il 3974 platino quadrante silver con numeriBreguet. Il 6062 è un orologio che mi è sempre piaciuto in tutte le sue forme e in tutte le sue sostanze. Infine, negli ultimi anni ho riscoperto il tourbillon di Daniel Roth e lo trovo veramente un’opera  d’arte.»
Guardando alla tua esperienza, quanto è cambiato il collezionismo orologiero dagli anni ’90 ad oggi?
«C’è una domanda che mi viene sistematicamente posta e che è molto vicina a quello che mi chiedi: “che tipo di consiglio ti sentiresti di dare ad una persona che inizia oggi a collezionare?”.»
Era l’ultima domanda che ti avrei fatto!
«Bene, oggi se questa domanda venisse rivolta a cento persone del nostro settore, la risposta sarebbe stata sempre la stessa: “bisogna assolutamente  prediligere la rarità e la qualità”. Se parliamo del mondo vintage conosciamo bene i numeri della produzione e di conseguenza la loro rarità. Spostiamo invece sulla qualità: se la associamo al mondo vintage, ci accorgiamo che viene rivolta “solo ed esclusivamente” allo stato di conservazione dell’orologio. Non conosco nessuno che, dopo aver aperto un fondello di un 2499, ha detto: “guarda che bella  finitura Cote de Geneve ha questo movimento oppure la regolazione micrometrica a Collo di Cigno”. Assolutamente no! Guardiamo lo stato di conservazione della cassa, i punzoni, il quadrante… e poi facciamo le nostre scelte.»
Ci stiamo avvicinando alla risposta alla mia prima domanda?
«Esatto. È cambiato il modo di collezionare.»
Un esempio?
«Le persone che oggi acquistano i famigerati “indipendenti” fanno lo stesso ragionamento che abbiamo portato avanti prima, cercano prima di tutto la rarità. Mi vengono in mente tre grandi orologiai, per essere equi uno per ogni paese: Theo Auffret a Parigi, Simon Brette a Ginevra e Charles Frodsham a Londra. I tempi di attesa per avere uno dei loro orologi va dagli otto ai dodici anni.»
Lo stesso tempo di attesa per un Daytona in acciaio.
«Sì, ma la rarità per il Daytona non è dovuta ad una produzione ridotta, quanto piuttosto ad una richiesta sproporzionata su scala mondiale.»
Abbiamo capito la rarità, adesso affrontiamo la qualità?
«La qualità in un indipendente inizia nel modo in cui è stato progettato un movimento, continua nel modo in cui viene prodotto e implementato, nella scelta dei materiali per ogni singolo componente e delle sue finiture, nella scelta delle casse nella scelta dei quadranti e dei processi di lavorazione per realizzarlo. Questa è la “qualità” che si riscontra negli indipendenti e quando mi si chiede se sono un fenomeno destinato a durare nel tempo, non posso che rispondere: non sono un “fenomeno”, parola che si attribuisce ad un evento eccezionale, sono già oggi storia.»
Collezionare “indipendenti” è qualcosa di diverso rispetto all’orologeria tradizionale?
«Sicuramente è una maniera di collezionare diversa rispetto a quella della modellistica d’epoca, che si rivolge ad altre persone che hanno più interesse verso la meccanica e il suo funzionamento, piuttosto che alla storia o al blasone dell’ orologio stesso.»
Si sovrappongono nelle scelte degli appassionati?
«No, la cosa bella è che orologeria tradizionale e indipendente viaggiano su strade parallele, non si fanno la guerra e non sono di disturbo l’una per l’altra.Ci sono persone che amano il vintage, alti gli indipendenti, altri ancora, come me, che guardano sia gli uni che gli altri.»


Abbiamo detto che orologeria tradizionale e vintage sono due “settori” che viaggiano in parallelo senza competere l’uno con l’altro. È però innegabile che alcuni produttori moderni stiano, per così dire, “tirando la giacchetta” agli indipendenti. Vediamo sempre più collaborazioni con loro, come pure alcuni modelli di marche “storiche” si presentano oggi con grafiche e colori non certo convenzionali. Tutto questo, spesso, con l’avallo e il sostegno di alcune Case d’asta.
«Affronto per primo il discorso dell’interesse “pressante” delle case d’asta nei confronti di alcuni indipendenti: a mio avviso sono logiche di mercato che non dovrebbero esistere e metterei questi comportamenti alla stessa stregua della speculazione. Per quanto riguarda il discorso che i brand storici stiano provando ad “imitare”, almeno stilisticamente, la creatività propria degli indipendenti, credo che in teoria qualcosa lo abbiamo visto, ma sempre dal punto di vista puramente estetico. La realtà è che non si può assolutamente dire che i brand più tradizionali negli ultimi 40 anni abbiano fatto innovazione. I materiali delle casse sono sempre gli stessi, nonostante la tecnologia ci permetta di fare cose veramente fuori dal comune, come pure i layout dei quadranti...»
Non si salva nessuno?
“Uno dei pochi che ha realmente innovato è Richard Mille, con la scelta dei materiali, delle meccaniche e con quella della cassa.

Non è facile invece per i brand storici.
«Assolutamente no, faccio un esempio. Patek Philippe si porta dietro storia, tradizione, valori di qualità e di perfezione. Innovare sarebbe in una certa qual maniera “rinnegare” tutto questo: una scelta “molto” difficile. Non vorrei essere nei panni di Stern, perché tra l’innovare e il rinnegare il confine è molto labile. Diventa pericoloso. Ma soprattutto i portatori di storia e tradizione, come proprio Patek Philippe, ma anche noi collezionisti di vecchio stampo, se non cerchiamo di capire il futuro, se non cerchiamo di pensare come ragionano le nuove generazioni, rischiamo di rimanere aggrappati al nostro territorio… e non va bene.»
Un esempio?
«Qualche anno fa ho avuto la fortuna di assistere ad un simposio con Jean-Claude Biver, genio assoluto dell’orologeria. Lui disse “Tutte le notti cerco di pensare a cosa possiamo offrire alle nuove generazioni. Le idee migliori mi venivano quando andavo in Giappone con mio figlio Pierre. Mi piaceva vedere in quali negozi entrava, cosa osservava, cosa commentava con i suoi amici. La realtà è che soltanto se noi riusciamo a comprendere le nuove generazioni, possiamo trasferire nel presente e nel futuro l’enorme valore culturale che ci viene dal passato.” In quell’epoca credo che avesse un ruolo apicale in TAG Heuer ed era e Presidente della Divisione Orologi di LVMH, un marchio giovane e giovanile. Non a caso contattò – e siamo circa nel 2017- due giovanissimi per fare comunicazione: il primo era un, cantante, cantautore, rapper e produttore discografico colombiano, J Balvin. Le parole di Biver risultano ancora oggi emblematiche “Dobbiamo iniziare dalle nuove generazioni. Anche se non possono comprare adesso, prima o poi compreranno. Se non parli con loro adesso, come potranno sognarti più tardi?”
Siamo curiosi: il secondo?
«Un ragazzo che sui kart andava più veloce di tutti, ma era soprattutto famoso per le immancabili liti e scazzottate a fine corsa. Si chiamava Max Emilian Verstappen ed è oggi, con tre mondiali vinti di fila, uno dei più grandi piloti della Formula 1.»
Non pensi che i giovani debbano scegliersela da soli la strada?
«Sì, ma hanno bisogno di una guida.»
Il web può essere la soluzione migliore per raggiungerli?
«Ho la fortuna di utilizzare senza problemi i social media e negli ultimi anni mi è capitato di entrare in contatto più di una volta con dei ragazzi di 25/35 anni, soprattutto nel sud-est asiatico: Singapore, Malesia, Taiwan, Viet Nam. Nella quasi totalità delle volte il nostro “rapporto” inizia perché ricevo da parte loro un messaggio su Instagram.»


Cosa ti dicono?
«Inizia sempre con un “Signor Paramico” e qui già un po’ mi girano perché mi sento vecchio, cosa che non sono. “Grazie, lei per noi è stato una fonte di ispirazione, per quello che ha collezionato, che ha comprato, per il suo stile nel fare le cose”. Io cerco di far capire a questi ragazzi, che tutto quello che posso fare per loro è “accendere un faro” su di un mondo che conosco molto bene, quello della bella orologeria tra gli anni ’30 e gli anni ’60. Si tratta però di un qualcosa di circoscritto. La vera fonte di ispirazione sono loro per me, perché solo loro mi possono proiettare in un mondo illimitato che ha un solo nome: futuro.»
Le generazioni si devono parlare.
«Che è quello che faccio continuamente con questi ragazzi e lo scambio di idee è qualcosa di realmente bello e potente.»
C’è anche qualche europeo?
«Sì, qualche americano e qualche europeo, anche due o tre italiani. Tutte persone davvero molto interessanti.»
Tu hai la fortuna di partire da un livello realmente molto alto.
«Lo posso fare perché sono entrato in questo mondo davvero tanti anni fa, con delle regole e dei numeri diversi da quelli odierni. Se mi guardo indietro, scopro che oggi non potrei neanche lontanamente permettermi gli acquisti che facevo qualche decennio addietro. I valori sono completamente diversi. Oggi si parla di fattori esponenziali.»
Il tuo passato è la tua forza.
«Ho avuto la fortuna di crescere in un contesto dove gli orologi c’erano, si potevano toccare, c’era soprattutto un grandissimo affiatamento tra tutte le persone che se ne occupavano.»
Cosa ti trasmette un orologio?
«Un insieme di sensazioni: la bellezza, la rarità, le sue condizioni. In pratica mi parla e mi racconta tutto di sé. Però mi piace anche pensare i criteri che le nuove generazioni seguono per la scelta e l’acquisto degli orologi: ad esempio si basano tanto sulle storie degli orologiai rinati negli anni ’90 dopo il crollo nel ventennio precedente.»
Tu mi parli di storytelling e intanto il mondo, almeno fino a pochissimo tempo addietro, nelle lancette sembra aver cercato più che altro un motivo per speculare.
«In qualunque investimento c’è inevitabilmente un occhio che guarda anche all’ aspetto finanziario, ed è anche giusto che sia così. Quando cominciavo a comprare i primi pezzi importanti, il fatto di dover “pagare un premio” perché un determinato orologio aveva delle caratteristiche al di fuori della norma, era una cosa gestibile, perché i valori erano compatibili con la vita del tempo. Oggi chi compra dei pezzi al di sopra della media, pagando magari cifre tra i 3 e i 5 milioni di dollari, sa perfettamente cosa compra ma è giusto che stia attento alla salvaguardia del suo patrimonio.»
La speculazione però c’è stata.
«Sì, è inutile negarlo. Ma è stata provocata da dei fattori esogeni e non endogeni all’orologeria. Il Covid ha stravolto tutto, mettendo sui mercati un’iniezione di liquidità che non ha avuto eguali nella storia. Mi da così fastidio, oggi, sentirmi dire il mercato degli orologi è crollato. Non è affatto vero. La realtà è che alcuni modelli che avevano raggiunto quotazioni folli durante la pandemia, oggi le vedono dimezzate. Ma in generale tutti prezzi sono sempre più alti rispetto a quelli pre-pandemici.»
Una considerazione corretta, perché il mercato dell’orologeria ha comunque aumentato il suo valore.
«In statistica si dice che gli eventi inaspettati, guerre, pandemie, calamità naturali, non vanno considerati per gli studi sulle medie, ma vanno nelle code della curva di probabilità. Estrapolando le eccezioni, il picco dei prezzi durante la pandemia, possiamo osservare che gli orologi hanno avuto una crescita costante nel tempo.»
La storia più rocambolesca che ricordi nell’acquisto di un orologio? (a chiederlo è Giovanni Bonanno)
«Guarda Giovanni, ne posso raccontare due. La prima è legata a dei sentimenti che raramente ho provato – e non me ne vergogno a dirlo - anche nei normali rapporti umani. È stato quando ho acquistato il 1518 in acciaio. Una trattativa andata avanti per mesi, soggetta al risultato di un’asta minore che si era svolta solamente il giorno prima di chiudere l’operazione. Ricordo che era una bella serata di maggio, ero sul lungolago a Ginevra davanti a quello che oggi è il Four Seasons. Ancora ho impresso il momento di quando ricevetti la fatidica notizia e quello che provai fu qualcosa di forte.»
Quell’orologio ha poi fatto 11 milioni di franchi svizzeri all’asta da Phillips.
«Esatto. Proprio lui.»
La seconda domanda riguarda il pezzo che non sei mai riuscito ad acquistare: c’è un orologio che hai tanto desiderato ma non sei mai riuscito a possedere?
«Non sono mai riuscito a comprare il “limoncino”, o meglio l’ho perso per tre volte di fila sempre per 5.000 euro… poi uno l’ho preso, ma dopo. Per il resto non c’è mai stato un orologio che abbia desiderato e che non sono riuscito ad acquistare.»
L’acquisto di cui sei più orgoglioso?
«Sicuramente il Patek Philippe ref. 2497 in platino. Un orologio straordinario, che non dovrebbe essere chiuso in una collezione privata, ma meriterebbe senza dubbio la teca di un museo. Tra l’altro, anche in quel caso, arrivai all’acquisto dopo una storia rocambolesca.»
Se puoi, raccontacela....
«Ci vorrebbe Aurel Bacs per avere il racconto completo. Quello che mi ricordo è che all’epoca non c’erano i social così efficaci, ed Aurel ricevette una telefonata da una persona che si trovava addirittura in un altro continente, che gli diceva di possedere un orologio molto bello. In quell’epoca però, ci divertivamo tra amici a chiamarlo per scherzo, facendo le voci strane e proponendogli i pezzi più strani e costosi. Quindi lui pensò che si trattasse dell’ennesimo scherzo e lo trattò come tale. Ci volle del tempo per convincerlo, ma soprattutto l’arrivo della foto che ritraeva questo pezzo bellissimo, con la cassa praticamente nuova, con gli indici Breguet in smalto bellissimi. Nella garanzia, all’ultima pagina, c’era il timbro del concessionario e la data di vendita, che corrispondeva a quella presente sull’estratto di archivio richiesto successivamente.»
Nomini sempre questo 2497, ti ha davvero colpito.
«Sì, è qualcosa che mi è rimasto dentro. Per quanto l’ho amato e rispettato, non sono “mai” riuscito ad indossarlo. Era in cassetta di sicurezza, l’ho tenuto in mano tante volte, studiato in ogni suo minimo particolare, ma non sono mai riuscito ad indossarlo al polso. Mi piaceva vederlo, sapere che esisteva: una forma di rispetto forse eccessiva.»


Nautilus o Royal Oak.
«Royal Oak tutta la vita, chi mi conosce sa che non amo il Nautilus, anche se ho posseduto il più bello di tutti, ma continua a non piacermi.»
Daytona o Speedmaster?
«Daytona»
Cosa ne pensi si Swatch che riedita prima il MoonSwatch e poi il sub di
Blancpain?
«Sono delle iniziative divertenti: ho il primo, acquisterò il secondo. Penso che siano delle operazioni commerciali che hanno il merito di avvicinare i più giovani al mondo e alla storia dell’orologeria. Non ci vedo nulla di male, anzi sono del tutto favorevole. Un bene per tutti quanti.»
Rolex che ha acquisito Bucherer?
«Penso sia anche giusto. È un’ulteriore verticalizzazione dell’industria orologiera, che va guardata in maniera positiva. Inoltre il mercato del secondo polso è sempre più importante, e Rolex non ha nessuna intenzione di perdere questa fetta di mercato.»
LVMH si sta muovendo in forze nel mondo dell’Alta Orologeria.
«Hanno fatto un grosso investimento con La Fabrique du Temps, prendendo due mega orologiai: Enrico Barbasini e Michel Navas, che hanno lavorato in maniera stupenda sia con Daniel Roth che con Gerald Genta. I loro segnatempo faranno una concorrenza agguerrita alla fascia altissima dell’orologeria, come potrebbero integrarsi con la Casa ginevrina? Venendo dal mondo della finanza sono pronto ad accettare tutto, ma sarebbe veramente difficile un’acquisizione di questo tipo. Non la vedo come un’operazione sul tavolo.»
Cosa guardi quando acquisti un orologio?
«La bellezza! Deve essere bello. Ricordo che Auro Montanari diceva sempre “l’importante per gli orologi è che siano belli”, è il suo mantra.» L’ha detto anche in una sua intervista. «Auro è un esteta in ogni cosa che fa, dagli orologi, alle auto, all’abbigliamento… Non riuscirò mai ad imitarlo ma sono d’accordo con lui: l’orologio ti deve dare delle sensazioni positive. A questo proposito, proprio dopo aver letto la tua intervista, vorrei dissentire in merito ad una sua affermazione.»
Ti ascoltiamo!
«Auro ha detto che secondo lui gli indipendenti non sono ancora riusciti ad offrire un canone estetico all’altezza della qualità meccanica dei loro orologi. Su questo avrei qualche dubbio. Auro è nato e cresciuto studiando gli orologi con la lente d’ingrandimento, la sua cultura è così radicata sui canoni estetici degli anni ’40 e ’50, che non deve essere facile per lui apprezzare appieno il canone estetico di un indipendente. Lo dico con affetto e non come critica. Proprio le persone come Auro, che hanno un bagaglio culturale da trasmettere, sono quelle che dovrebbero fare uno sforzo in più per cercare di capire perché quell’orologiaio ha voluto quel canone estetico sulla sua creazione, come ci è arrivato, cosa voleva
raccontare.»
I tempi cambiano.
«I tempi cambiano e con loro cambiano anche i canoni estetici. Se io oggi vedessi un indipendente fare un orologio con un movimento spettacolare, riprendendo però la cassa e il quadrante della modellistica anni ’50, lo troverei di una banalità sconcertante. Bisogna innovare, è giusto farlo. Inoltre, tutti i cambiamenti stilistici hanno bisogno di tempo per essere “digeriti”, specie da chi ha un senso estetico davvero alto.»

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